Ed eccoci qua con la mia prima recensione, come promesso di un libro scritto da una baby autrice.
Innanzitutto, faccio una piccola premessa: so per esperienza che è praticamente impossibile scrivere una recensione obbiettiva al 100%. Per quanto sia documentata, infatti, chi recensisce vi mette sempre un po’ di farina del suo sacco. Mi spiego: certi difetti ci sono e ci restano indipendentemente dal parere personale di ciascuno, ma non tutti questi difetti possono essere sempre valutati sullo stesso piano. Per esempio, io giudico un errore piuttosto grave il cambio repentino di punto di vista (d’ora in poi PoV – Point of View), mentre per altri può essere un difetto su cui si può chiudere un occhio. Questo dipende soltanto dalla sensibilità di ciascun lettore, e visto che come critica sono ancora alle prime armi, non pretendo certo di esprimere dei pareri assoluti. Spero solo che le mie siano recensioni che vi aiutino a scegliere cosa leggere e cosa no e che vi siano utili in un qualche modo, magari per diventare dei lettori più attenti e consapevoli.
In secundis, visto che la cosa ha suscitato già alcune lamentele, sappiate che non ho scritto questa recensione perché ce l’ho con l’autrice: non la conosco personalmente, non le ho mai parlato e non ho minimamente in considerazione la sua età. L’ironia che riscontrerete leggendo la recensione non è dovuta a invidia, a frustrazione o che so io: semplicemente, reputo che l’atteggiamento della scrittrice sia stato davvero poco cortese nei confronti di chi prima di me l’ha criticata, perciò potrei ben dire che una bella recensione/stroncatura se l’è proprio meritata. Il sarcasmo, comunque, non è rivolto personalmente a lei, ma soltanto al libro e alla sua reazione davvero infantile e maleducata.
Vi chiedo solo una cosa, però: se avete intenzione di leggere la recensione che segue con l’intenzione di darmi dell’invidiosa-che-critica-tutto-e-che-ce-l’ha-con-i-poveri-baby-scrittori, chiudete immediatamente la pagina e saremo tutti più contenti. Tutto ciò che segue, infatti, non è frutto della mia seppur fervida immaginazione, ma lo potrete verificare personalmente se vorrete leggere il libro.
Detto questo, cominciamo pure con un libro che, a mio parere, è uno dei peggiori romanzi mai pubblicati da un baby scrittore, ovvero Il libro del destino: L’erede di Ahina Sohul, della giovane Elisa Rosso.
Titolo: Il libro del destino
Sottotitolo: L’erede di Ahina Sohul
Autore: Elisa Rosso
Genere: fantasy classico, elfi
Editore: Piemme
Collana: Freeway Fantasy
Pagine: 495
Anno di pubblicazione: 2008
ISBN: 9788838474668
Prezzo: € 18,00
Formato: rilegato
Valutazione: 
Qualcosa sull’autrice
Ma come, Elisa Rosso chi?
Stiamo parlando di una studentessa milanese nata nel 1993, che cresce a furia di racconti e leggende raccontatele dai suoi genitori, e che a soli 12 anni si mette in testa di scrivere un libro. Un bel giorno, durante una vacanza in montagna, sequestra il portatile di sua mamma e butta giù il prologo del suddetto libro; dopo averlo letto, la mamma lo apprezza molto e la esorta ad andare avanti, e prima ancora che il romanzo sia concluso, i genitori prendono contatti con la Piemme, che la pubblica a soli 15 anni, facendola così diventare la più giovane scrittrice italiana. La sua opera prima è un fantasy che copia prende spunto dai libri di Tolkien, scrittore molto amato dalla Rosso, dal titolo Il libro del destino: finora sono usciti due dei tre libri previsti – perché naturalmente si tratta di una trilogia che, ovviamente, all’inizio doveva essere un libro solo, ma che poi per magia sono diventati ben tre –, ovvero L’erede di Ahina Sohul e Il principe delle nebbie.
Le premesse per un best-seller mondiale ci sono tutte, no? Un fantasy “eroico e avventuroso”, un’epica trilogia mozzafiato, ma soprattutto un’autrice quindicenne! Deve essere un vero e proprio gegno per aver pubblicato così giovane, no?
Già.
Peccato che, come ho scritto nel mio precedente articolo sui baby scrittori, il merito di questo esordio così precoce non sia merito della bravura dell’autrice, bensì unicamente della smania di mamma e papà. Infatti, come si trova scritto sullo stesso blog: «è tutta “colpa” di mia madre, che ha chiamato in giro mentre stavo ancora scrivendo, e ho saputo che sarei stata pubblicata mentre ero appena a metà del libro!»
Così come accade sempre con i baby scrittori, ai genitori proprio non passa nemmeno per l’anticamera del cervello che per loro sia matematicamente impossibile giudicare male (ma anche solo in modo oggettivo) ciò che ha scritto la loro bambina e comprendere che il suo libro non sia poi quel capolavoro che credono. Ma questo pensate che agli editori importi qualcosa? Certo che no, a loro interessa solo fare i soldi, ed è ovvio che un baby scrittore sia una miniera d’oro per loro. E di conseguenza, i baby autori crederanno di essere stati pubblicati perché loro valgono, e non sospetteranno mai che la loro opera prima in realtà sia identica a quella della maggior parte dei loro coetanei scrittori: infantile, piena di ingenuità e in generale inadatta alla pubblicazione.
O almeno non lo sospetteranno finché non arriverà un qualche critico che farà loro vedere le cose come stanno, e che quindi come minimo li farà cascare dalle nuvole: è successo proprio questo con la Rosso, cosa che, tra l’altro, le ha fatto meritare l’appellativo di lady. Un brutto giorno, infatti, la suddetta è stata raggiunta tramite aNobii (correggetemi se sbaglio) da una certa Princess, che ha criticato duramente il suo libro. Ma Elisa Rosso era (ed è tutt’ora) troppo brava, giovane e talentuosa per accettare le critiche, seppur obbiettive. Il risultato è stato questo epico duello, in cui vediamo la nostra Lady Rosso (o, come preferisco, Lady Red) prendersela a morte con colei che ha osato criticare il suo ineguagliabile capolavoro, arrivando addirittura a insultarla sul personale. Le sue motivazioni? Due soltanto:
a) “Perché è fantasy”;
b) “Perché io sono una bambina piccola e voi siete tutti degli invidiosi. Gnè!”.
Il tutto alla faccia dell’intervista in cui dichiara che “le critiche negative le accolgo con piacere perché, se costruttive, mi daranno la possibilità di migliorare!”.
Questo è solo il primo degli effetti collaterali che provoca il pubblicare in giovane età: se Il libro del destino fosse tutto sommato decente, si potrebbe chiudere un occhio sulla scenata fatta dall’autrice, magari dando la colpa all’ingenuità dovuta ai suoi quindici anni. Ma in questo caso il libro non arriva nemmeno lontanamente a un livello di decenza tale da poter essere pubblicato, e vediamo subito i motivi per cui affermo questo.
Ah, dimenticavo: non potete proprio non fare un salto sul favoloso blog della Rosso! In particolare, non fatevi scappare gli esilaranti commenti delle fan!
Il libro
Partiamo dal principio, in questo caso dal biglietto da visita del libro, ovvero la copertina. Verrebbe da dire che è davvero ben fatta, come del resto accade sempre con le immagini del grande Iacopo Bruno. Leggendo il romanzo, però, ci accorgiamo di alcuni piccoli dettagli per i quali viene da domandare se chi l’ha realizzata (o commissionata) abbia davvero letto il libro. I piccoli dettagli sono i seguenti:
– A meno che uno non perda tempo a leggere i ringraziamenti, non c’è verso di capire dal libro chi sia la bella signorina sul davanti: nella storia, infatti, non viene affatto detto che la protagonista – Eynis – abbia gli occhi azzurri e le treccine. In teoria, infatti, dovrebbe avere i capelli ramati e gli occhi verdi… e meno male che nei ringraziamenti Lady Red dice chiaramente «Grazie a Iacopo Bruno per aver disegnato Eynis esattamente come me la immaginavo»!
– Sempre alla faccia che la copertina di un libro dovrebbe, in teoria, raffigurare quanto contenuto nel libro, è inutile che cerchiate di capire chi sia il tipo a cavallo: è tutt’ora un mistero.
– Il terzo particolare che proprio non va lo troviamo proprio nel titolo: come si scopre leggendo il libro, l’effettivo “erede di Ahina Sohul” si chiama Bedwyr. Ma a questo punto i problemi sono due:
a) leggendo il libro scopriamo che, in realtà, il personaggio principale non è Eynis ma Bedwyr, nel senso che la prima ruba continuamente la scena al secondo, al punto da chiedersi come mai il libro non sia intitolato a lei invece che a lui;
b) ma soprattutto, come mai, se il libro è intitolato a Bedwyr, in copertina troviamo Eynis?
Un dilemma senza soluzione, in poche parole.
Solleviamo la copertina e nel risvolto troviamo il riassunto del libro:
«Il Signore delle Nebbie con il suo esercito di amorphi ha assaltato la città di Ahina Sohul, capitale delle terre di Nadesh, usurpato il potere del re e messo sul trono Pseudos, alleato delle forze del male. Quindici anni dopo, il custode Galdwin parte alla ricerca del giovane Bedwyr, vero erede al trono di Ahina Sohul, sopravvissuto al massacro della famiglia reale. Lo trova a Batilan, dove conosce anche Eynis, una ragazza dal passato misterioso e dalle incredibili doti. Bedwyr ed Eynis si uniranno ai rappresentanti delle cinque Razze Libere: Uomini, Elfi, Lupi, Nani e Draghi. Insieme cercheranno di ritrovare le pagine perdute del Libro del Destino, il libro profetico in grado di rivelare a chi lo possiede le sorti della Terra di Nadesh…»
Ed ecco che, in sole 124 parole, troviamo un concentrato di cliché a dir poco epico: un signore oscuro che usurpa il trono, l’esercito dei mostri brutti&kattivi, un erede perduto, una ragazzina carina, coraggiosa, intelligente e chi più ne ha più ne metta, la compagnia delle razze libere (ma se sono oppressi da un usurpatore cosa vai a dire che sono libere??) e naturalmente l’immancabile Destino-Ineluttabile-e-Spietato.
Ma adesso passiamo alla parte più interessante del libro, ovvero la cartina delle terre di Nadesh.
L’ambientazione
Ed ecco a voi la splendida (?) mappa di Nadesh che troviamo all’inizio e alla fine del romanzo, scannerizzata dalla sottoscritta perché su internet non se ne trova una decente:

Come per tutte le cartine dei fantasy scritti da baby autori, troviamo:
– una terra, tra l’altro che sembra appena abbozzata, le cui estremità rientrano perfettamente nel perimetro della pagina, con tanto di confini regolarissimi (come la linea della costa praticamente priva di curve);
– paludi, deserti, boschi a forma di nuvoletta – con tanto di città nel bel mezzo stile Eragon –, montagne che sembrano tracciate con la squadra e compagnia bella piazzati alla cavolo;
– fiumi che cominciano e finiscono nel nulla o che addirittura sembrano risalire verso le montagne, anziché andare verso il mare;
– il solito Regno delle Nebbie nell’angolino più irraggiungibile della pagina, naturalmente sede dei kattivi;
– città anch’esse piazzate come capita, tutte rigorosamente con nomi stile “Signore degli Anelli” e parecchie immerse nel nulla assoluto;
– infine, come patetico tentativo di farla sembrare una mappa decente, troviamo addirittura la stessa font usato nel libro di Tolkien, ovvero il First order plain.
Se dopo questa recensione avrete ancora voglia di leggere il libro, noterete senz’altro qualcos’altro che non va. Vi do un indizio: guardando questo dettaglio di cartina, vi sembra forse intelligente la scelta dei personaggi di andare da Batilan a Grimson per poi rifarsi tutta la strada fino a Balbe?

Un dettaglio della mappa di Nadesh
Il quasi onnipresente problema delle distanze, ahimè, non fa altro che risultare ridicola a chi guarda la cartina. Una mappa ben realizzata è molto utile per seguire il percorso dei personaggi (come nel Signore degli Anelli, senza la quale ci si perde leggermente…), ma quando è disegnata così alla cavolo, sarebbe meglio che non ci fosse neppure. Ma come può il capolavoro di un baby scrittore essere tale senza una bella mappina fèntasi?
Un estratto
Dopo aver ammirato le terre di Nadesh, addentriamoci nella storia. Senza fare spoiler, vi propongo alcuni passi dell’estratto che la stessa casa editrice Piemme mette a disposizione sul loro sito:
PROLOGO
LA CITTÀ DEGLI UOMINI
Il cielo era rosso sopra la città di Ahina Nhife, o Ahina Sohul come la chiamavano gli uomini. Un tempo le mura e le case erano di marmo bianco, ma ora erano sporche di sangue e annerite dal fumo. L’assalto era avvenuto di notte, quando le truppe di Pseudos potevano agire indisturbate con l’aiuto delle tenebre. Ma gli uomini avevano opposto resistenza e ora giacevano lungo le strade, immobili.
L’Aquila bianca non riusciva a rimanere impassibile di fronte all’orrendo spettacolo che si rifletteva nei suoi occhi arancione, all’odore acre di fumo e sangue. «Tutto questo non era necessario» pensava. «Avrebbero potuto abbandonare la città e fuggire nelle terre di Vahls dove sarebbero stati al sicuro. Ma gli uomini di Ahina Sohul sono orgogliosi e temerari, hanno preferito tentare una disperata difesa, pur di non abbandonare la loro città…»
Cos’è che non va in questo incipit? Il problema è che fugge via troppo veloce. Sei sole righe non bastano nemmeno per un inizio in medias res: sono a malapena sufficienti per dare una spolveratina iniziale riguardo a quello che sta succedendo. Ok, il cielo è rosso, la città è in guerra, gli uomini che si sono difesi sono morti… e poi? Basta così? Veramente restrittivo, come incipit, secondo me.
E qui incontriamo già il difetto principale della scrittura di Lady Rosso, che molti tendono a scambiare per dinamismo e vivacità di stile: non mostra ciò che succede, lo racconta e stop, senza mai prendersi la briga di approfondire ciò che sta descrivendo. Non si perde in descrizioni inutili, e questo è un bene, ma nemmeno fuggire via in questo modo, senza dare al lettore la possibilità di assaporare la storia è così giusto. La Rosso racconta solo ciò che pare a lei, e che chi non capisce si arrangi: è questo ciò che trapela da uno stile così riduttivo.
Passando al secondo paragrafo e sorvolando sulla scelta dell’aquila bianca (mai usato questo animale, eh? Nooo…), il difetto persiste: un «orrendo spettacolo» non dice niente, non mostra che lo spettacolo che l’aquila sta osservando sia veramente orrendo. Qui, inoltre, troviamo un altro errore non da poco:
…non riusciva a rimanere impassibile di fronte all’orrendo spettacolo / che si rifletteva nei suoi occhi arancione,/ all’odore acre di fumo e sangue.
In sole 23 parole, il PoV cambia ben due volte: nel primo passo si trova chiaramente nell’aquila, poi esce di botto a osservare i suoi occhi (un PoV all’interno di un personaggio non può fare commenti sul suo aspetto, a meno che non si stia guardando allo specchio), e poi rientra dentro all’aquila. Un bell’effetto stile “partita di ping-pong”, non trovate? Peccato che errori del genere siano da evitare, specialmente se ci troviamo nella prima pagina di un libro e soprattutto se il suddetto libro è passato tra le mani di un editor. Ma Lady Red è troppo brava per commettere errori, no?
Pseudos se ne stava là, sul suo cavallo, a osservare compiaciuto le truppe di amorphi e di goblin che si riversavano nella capitale della terra di Nadesh. /Sembrava godere delle urla delle donne e del pianto dei bambini./
Sapeva che ben presto sarebbe diventato re. Sarebbe stato l’unico erede al trono perché tutto i possibili pretendenti sarebbero tragicamente morti nell’assalto: nessuno avrebbe sospettato che era stato lui a organizzare la presa della città. Anzi, avrebbero creduto che la stava difendendo coraggiosamente.
Anche qui, a parte il solito difetto del mostrato-e-non-raccontato (mai sentito parlare dello Show, don’t tell, cara Lady?), anche il PoV salterino persiste: prima è nella zucca di Pseudos, poi esce all’improvviso (è quel “sembrava” che rovina tutto: Pseudos sta godendo delle urla e dei pianti, non sembra godere. Sempre che non stiamo parlando di uno schizofrenico, ovviamente) e rientra dopo sole 11 parole. Editooor, dove seeei??
A un suo ordine, una pattuglia di venti uomini si dispose in formazione intorno a lui. La spronò alla carica nella zona Sud di Ahina Sohul, dove sapeva che l’attendevano cinquecento goblin, pronti all’agguato. Poi si diresse verso un’immonda creatura dalla pelle coriacea: un troll del regno delle nebbie.
Sì, lo so, anche qui lo Show, don’t tell è andato a farsi benedire. Ma questo cosa volete che importi a Lady Red? Lei è già bravissima è piena di talento a soli quindici anni, no?
Notate, inoltre, l’originalità che spicca dalla scelta dei kattivi usati: sempre i soliti troll e goblin, che essendo malvagi sono anche inesorabilmente brutti (maddai?); solo con gli amorphi si ha un pizzico di novità… ma allora perché la casa Lady non impiega una riga per descriverceli? E anche riguardo ai troll e ai goblin, come accade sempre nei libri fantasy moderni, ciò che traspare è: “Non sai come sono i troll e i goblin? Eccheccavolo, devo dirti sempre tutto io?? Fatti un giro su Wikipedia, se proprio ci tieni a saperlo!”
In parole povere: non ho voglia di inventarmi delle nuove creature, così prendo quelle già fatte, ma se vuoi sapere come sono arrangiati tu.
Si continua in questi toni per un paio di pagine, sempre con i soliti difetti, che non sto a ripetere. Passiamo un poco più avanti, dunque:
Poi [Pseudos] prese a sghignazzare e la sua lugubre risata echeggiò nelle sale ormai vuote del palazzo. Si interruppe solo quando udì un rumore di passi. Il troll Rorg si stava avvicinando e trascinava un uomo legato.
Ovvio, no? Non sarebbe un superkattivo che si rispetti, se non si concedesse la sua diabolica risata stile “MUHAHAHAHAAAAA!!!”.
A parte questo, notare l’originalissima scelta del nome del troll, che più che un nome sembra l’ultimo agonizzante grugnito di un maiale. Un ottimo esempio di come, per creare nomi vincenti, sia sufficiente pigiare a caso le lettere sulla tastiera.
Segue un interessante dibattito tra Pseudos e il re di Nadesh, Galwan (tra parentesi, sembra che la Rosso abbia l’inquietante mania di affibbiare ai suoi personaggi i nomi più brutti presi dal ciclo bretone, come, appunto, Galwan o l’orribile Bedwyr).
– Parla, dunque, cane! (Bau!) Dov’è il Libro del Destino? – gli intimò. Galwan seguitò a tacere. Il troll lo colpì duramente alla schiena. Il re si piegò in avanti con una smorfia di dolore, ma la sua bocca si atteggiò subito a un mezzo sorriso. – È tutto inutile – disse. – Non lo troverai mai!
– Invece credo proprio di sì – sibilò l’usurpatore. – E sarai tu, Galwan, a dirmi dove si trova: se parlerai, avrai salva la vita.
– Anche se te lo dicessi – sorrise il re – non potresti averlo comunque.
– Cosa vai blaterando? – gridò Pseudos, abbandonando di colpo il tono sprezzante.
– L’ho distrutto, Pseudos. Ho distrutto il Libro del Destino. Vi ho letto del tuo arrivo e ho distribuito le pagine in ogni angolo della terra di Nadesh. Rassegnati, non lo avrai mai!
E qui abbiamo un’altra delle idee gegnali della Rosso: se proprio Galwan ci teneva che il Libro del Destino non finisse nelle mani del suo diabolico cugino, perché si è limitato a strappare le pagine del libro e a disseminarle per le terre di Nadesh (quanto caspita di tempo ha impiegato, tra parentesi? Che ci abbia messo proprio il tempo necessario trascorso dalla lettura del libro all’arrivo di Pseudos? Mi balla un occhio…), mentre avrebbe potuto – che ne so? – bruciarlo, buttarlo in mare o in un luogo irraggiungibile, o comunque in un posto dove non sia così facile da riassemblare?
La risposta è: certo che no, altrimenti non ci sarebbe nessuna storia… altrimenti non saremmo in un fèntasi!
Parliamoci chiaro, gente: sono d’accordo che serva una quest, ma ci vuole tanto a creare una quest degna del suo nome? È così impossibile costruire un fantasy in cui le basi della missione siano perlomeno solide e non pericolanti?
Sì, avete ragione: del resto la povera Lady Red è solo una bimba piccola. Non dobbiamo mica pretendere tanto da una così giovane e talentuosa baby scrittrice di fèntasi, giusto?
L’usurpatore fremette, la sua mano scivolò sull’impugnatura della spada, ma poi riprese l’autocontrollo e si rivolse al troll.
– Dove sono gli eredi?
– Non li abbiamo ancora trovati – borbottò la creatura.
Pseudos si rivolse a Galwan. – Tu hai due figli, giusto? Dove sono nascosti? E dov’è tua moglie?
Ma sapeva che anche per questa domanda non ci sarebbe stata risposta. E infatti il re rimase in silenzio e si limitò a guardarlo negli occhi con un misto di sfida e di trionfo sul viso. Pseudos imprecò, si volse e fece per andarsene, ma improvvisamente si girò di scatto con la spada sguainata e gli mozzò di nettò la testa. Poi, soddisfatto, si risedette sul trono del re.
Altro cliché vecchio come il mondo: il re è spacciato, ma i suoi eredi riescono a salvarsi nonostante tutto, destinati a crescere e a sconfiggere il kattivo.
E per finire Pseudos fa ancora spettacolo di tutta la sua malvagità: il re non serve più? Bene, tagliamogli la testa! E meno male che erano cugini!
In quello stesso momento da una porta laterale della città usciva un cavallo al galoppo. China sul collo del destriero c’era una donna che lo incitava con furia disperata. Era la regina di Ahina sohul. Con una mano reggeva le redini e con l’altra teneva un fagottino. Davanti a lei sedeva un ragazzo che osservava sgomento la terra scorrere sotto gli zoccoli del cavallo. Non era mai andato così veloce. Non aveva mai avuto così paura. Si girò verso la madre, ma la donna teneva gli occhi, verdi come smeraldi, fissi sulla strada insanguinata. L’unica cosa che contava per lei in quel momento era fuggire velocemente, portare via i suoi figli da quell’inferno. Spronò ancora il cavallo, poi lo lasciò andare a briglia sciolta, chinandosi a sussurrargli qualcosa all’orecchio. Ora erano fuori dalla città e il cavallo correva come se avesse il re degli amorphi alle calcagna. Il cappuccio scivolò via dal capo della donna, rivelando una cascata di capelli neri come l’inchiostro e le orecchie appuntite, ma lei non se ne curò: fuori dalla città era improbabile che la riconoscessero.
E qui facciamo la conoscenza della mogliettina di Galwan, che ovviamente, pur avendo letto sul Libro che il caro cugino Pseudos avrebbe attaccato la capitale, ha aspettato solo l’ultimo momento per fuggire.
Notate anche le due originalissime similitudini “verdi come smeraldi” e “neri come l’inchiostro” e fateci l’abitudine: sempre se deciderete di leggere il libro, saranno gli unici paragoni che incontrerete, oltre agli onnipresenti “rosso come il sangue” e “bianco come la neve”.
Un altro pezzo memorabile:
Intanto, oltre un’impervia catena di montagne, in una terra arida e sassosa dove le unite forme di vita erano i vermi che si contorcevano nel terreno asciutto, su una collina spoglia che sorgeva isolata nella pianura, una figura nera e silenziosa procedeva tra le foglia morte lungo un viale di pietra costeggiato da grigie statue simili a effigi di tombe.
Ma i vermi non amavano le zone umide? A parte questa licenza poetica un bel po’ triste, solo a me ricorda qualcosa la “figura nera e silenziosa procedeva tra le foglia morte lungo un viale di pietra costeggiato da grigie statue simili a effigi di tombe”? Un déjà lu?
In quello stesso istante, nel cuore del regno degli elfi silvani, una boccetta d’inchiostro di infranse a terra rompendo il silenzio che regnava in un austero studio dalle pareti di legno.
L’uomo, seduto alla scrivania, guardò allibito la propria mano tremante che aveva lasciato cadere il piccolo vaso. Nei suoi occhi, uno giallo e uno verde, si rifletteva il terrore. Si appoggiò allo schienale della sedia, passandosi la mano tra i capelli color dell’oro.
E a chi tocca ora? Ma naturalmente all’elfo dei boschi, dagli occhi gialli e verdi e dai capelli biondi come l’oro! Che tocco di originalità, mi congratulo con lei, Lady!
Poco più avanti, invece:
– Ascolta, Harys. I Mohrger sono stati liberati. Se non fuggiamo subito per nostro figlio sarà la fine!
Sul bel viso della donna si disegnò un’espressione di puro terrore. – I Mohrger! Miei dei, no! – mormorò, mentre dalle guance iniziavano a scivolare lacrime silenziose.
L’uomo dagli occhi diversi la strinse forte a sé. – Andrà tutto bene, non ci troveranno, te lo prometto. Porterò te e il bambino al sicuro.
La donna si alzò e lo seguì, ma i suoi singhiozzi sempre più forti si confondevano ormai con le grida di angoscia degli elfi per il risveglio dei Mohrger e del loro terrore.
Pauuura! I Mohrger si sono risvegliati! Saranno stati gli spasmi involontari della lingua al sol pronunciare questo terribile nome a far spaventare la povera Haris?
Scherzi a parte, questo è solo il primo dei sintomi che mi ha fatto giungere a un’altrettanto spaventosa conclusione: Lady Red soffre della temutissima e incurabile Sindrome da Sonohra.
Il nostro prologo si conclude in questo modo: la bella regina di Ahina Sohul continua la sua fuga per dieci giorni e dieci notti (‘mazza!), dopodiché si ferma in un villaggio e affida il fagottino contenente il figlio più piccolo (provate a indovinare un po’ di chi si tratta! Vi do un indizio: inizia con la B…). Successivamente, lei e il figlio più grande riprendono la loro fuga, fino a che una freccia degli amorphi non abbatte il loro cavallo. Ammirate questo memorabile finale:
La donna e suo figlio vennero circondati dagli amorphi. Il ragazzo estrasse un pugnale per proteggere la madre, ma lei gli urlò di mettersi in salvo, gli intimò di scappare e di non fermarsi mai. Il giovane a malincuore si gettò a correre nel bosco, ma fu inseguito dai goblin che, più veloci si lui, presto lo raggiunsero e lo circondarono.
Stavano per ucciderlo, quando la madre pronunciò alcune parole, seguite da un lampo accecante, e il ragazzo fu libero di riprendere la sua fuga.
Ma uau. E questo dovrebbe essere un punto di tensione? A me più che altro sembra la lista della spesa.
E per concludere in bellezza:
L’aquila bianca osservò a lungo dall’alto il principe degli uomini che si faceva strada a fatica sul terreno accidentato della foresta, incespicava e continuava a camminare, senza arrestarsi mai, secondo gli ordini ricevuti.
Solo lei aveva visto. Solo lei sapeva. Solo lei avrebbe ricordato.
Ta-ta-ta-taaaa! Ecco a voi un memorabile finale ad effetto!
Se ancora non vi siete sentiti male per un tal concentrato di schifezze stilistiche (e ci tengo a ricordarvi che siamo solo a pagina 12 su 495!), continuate pure a leggere la prossima puntata. Ma non dite che non vi avevo avvertito, eh? 🙂
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